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COVID-19 – Letteratura scientifica fra previsioni e misure di prevenzione

L’importanza di R0

Per studiare l’andamento della pandemia da Coronavirus, o per qualunque altra malattia infettiva, sono utilizzati modelli matematici, che definiscono un concetto basilare, facilmente comprensibile anche ai non addetti ai lavori: R0, chiamato “erre con zero”, o “numero di riproduzione base”. Questo valore, secondo l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), rappresenta “il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione completamente suscettibile, cioè mai venuta a contatto con il nuovo patogeno emergente”. In altre parole, R0 misura la potenziale trasmissibilità di una qualsiasi malattia infettiva, al momento rappresentata tragicamente dal COVID-19. Il tasso di contagiosità di un agente patogeno, oltre a dipendere dalle caratteristiche stesse del virus, varia in base alla densità di popolazione, ovvero quante persone si incontrano, per quanto tempo e quanto a lungo.

Gli esperti concordano che per interrompere la circolazione del COVID-19 sia necessario scendere al di sotto di un contagiato per ogni persona positiva, cioè che la guerra contro il Coronavirus sarà vinta quando il valore dell’R0 sarà inferiore a 1.

Esemplificando, un valore R1 significa che una persona malata ne contagia un’altra; con R2, un soggetto ne contagia due, e così via. Poiché R0 è un valore variabile nel tempo, l’obiettivo è abbassare il tasso di contagiosità del Coronavirus fino a fargli toccare lo zero. Quando il valore R arriva a 1, o meno, l’epidemia si ferma e il virus non riesce più a diffondersi.

Andrea e Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri, in collaborazione con l’Università di Bergamo, hanno pubblicato su Lancet, una delle più autorevoli riviste scientifiche al mondo, lo studio COVID-19 and Italy: what next?, che ha paragonato la diffusione del contagio in Lombardia e nella provincia cinese dell’Hubei. Le previsioni riportate dal lavoro sulla base dei dati disponibili dal Ministero della Salute sul numero dei pazienti COVID-19, analizzano da un lato l’andamento del trend dei contagi e dall’altro il trend dei pazienti bisognosi di terapia intensiva, concludendo che sono urgentemente necessari ulteriori posti letto di terapia intensiva, personale e attrezzature per gestire la situazione nei prossimi giorni e settimane. Questi dati seguono sostanzialmente un modello di diffusione del contagio esponenziale che indica un valore di R0 compreso tra 2,8 to 3,2, anche se in alcune zone della Lombardia ha superato 4, ovvero una persona ne contagia altre quattro. Uno studio effettuato da ricercatori italiani e greci ha misurato con modello matematico la data della dissolvenza dell’epidemia in Italia con le misure di contenimento attuali rispettate correttamente, che è stimata a fine maggio.

Correlazioni tra temperature/umidità e trasmissione del Coronavirus

Secondo lo studio cinese High Temperature and High Humidity Reduce the Transmission of COVID-19, degli autori Jingyuan Wang, Ke Tang, Kai Feng and Weifeng Lv, emerge che temperature e tassi di umidità relativa dell’aria elevati possono ridurre anche in modo significativo il rate R di contagio/trasmissione del COVID-19. Queste previsioni sono fondate su quanto accade con l’influenza, della cui stessa famiglia fa parte anche il nuovo Coronavirus e che presenta diverse similitudini nella mappa genetica.

Lo studio ha preso in considerazione un campione di 100 città cinesi per le quali vi sono stati più di 40 casi accertati (tra cui Pechino, Shangai, Sichuan) nell’intervallo temporale del 21-23 gennaio 2020: il 21 gennaio, perché è da quel giorno che tutti gli ospedali cinesi hanno iniziato a registrare i casi di COVID-19 a seguito della pubblica dichiarazione di contagio da persona a persona, che a partire dal 24 gennaio in poi ha determinato le forti restrizioni da parte del governo su tutto il territorio cinese per evitare il contagio. Questo importante fattore, la quarantena, fa venir decisamente meno il fattore climatico e sospende l’indagine al giorno 23 gennaio.

Gli autori, calcolando la media nel periodo 21-23 gennaio per ciascuna delle città campione, attraverso i metodi di regressione statistici, che considerano e mettono in relazione tra loro i parametri climatici con quelli demografici (densità di popolazione) e socio-sanitari (livello medio di igiene e qualità/efficienza del sistema sanitario locale), hanno rilevato una correlazione negativa tra trasmissione del virus (parametro R) con la temperatura e umidità relativa. Vale a dire che in condizioni climatiche calde e umide, il rate R di contagio è più basso, anche in modo significativo, per contro aria fredda e secca favorirebbe la trasmissione del Coronavirus, con un comportamento del tutto analogo all’influenza: i virus influenzali sono infatti più stabili in aria fredda e le goccioline emesse dal nostro respiro, che possono contenere il virus, fluttuano più ampiamente in presenza aria secca. Oltretutto in presenza di aria fredda e secca il nostro sistema immunitario risulta più debole. Non dobbiamo concludere, però, che nelle zone calde non ci sia il virus! Semplicemente ha meno facilità di propagazione.

Sulla base di queste evidenze e di ulteriori calcoli, le aree con il parametro R più elevato, quindi con contagio potenziale più elevato, al netto delle restrizioni socio-economiche imposte dai governi, considerando che la temperatura e umidità media del mese di marzo per le varie località sia grossomodo la stessa dello scorso anno, sono attualmente: Europa, Canada, Stati Uniti, gran parte dell’Asia centro-settentrionale, in genere per via del clima più freddo, ma anche l’Africa sub-sahariana e il Medio Oriente per via dell’aria più secca. Va invece per ora meglio in generale sull’Emisfero australe, dove è quasi autunno, ma anche tra India e Indocina dove il clima risulta afoso o comunque generalmente caldo. Secondo le proiezioni dello studio, nel prossimo luglio i tassi di contagio dovrebbero invece abbassarsi su gran parte dell’Emisfero boreale, quindi anche Europa e Nord America, ad eccezione degli States sud-occidentali dove l’aria si mantiene particolarmente secca; miglioramento più netto in prospettiva per India, Indocina, Giappone. Contestualmente le cose dovrebbero peggiorare per l’emisfero australe, che sarà in pieno inverno, in particolare per il Sud Africa e l’Australia.

Risultati analoghi sono stati ottenuti con uno studio parallelo dal titolo Temperature Significantly Change COVID-19 Transmission in 429 cities, che ha applicato metodi statistici su un campione ancora più vasto di oltre 400 città affette dal virus, non solo cinesi. Da qui emerge anche che vi è un range termico ideale per la proliferazione del virus, compreso tra 0°C e 10°C.

Aspettative sul vaccino

La pandemia dovuta al Coronavirus SARS-CoV-2, partita dalla Cina e dilagata in Italia e poi in Europa e nel mondo, è causata da un virus nuovo mai identificato prima nell’uomo. Il nuovo Coronavirus (il cui nome scientifico è SARS-CoV-2, che causa la malattia da coronavirus COVID-19), è un virus a RNA che fa parte della grande famiglia dei coronavirus a cui appartengono anche SARS-CoV, il virus della sindrome respiratoria acuta grave (SARS), il virus MERS-CoV, il virus della sindrome respiratoria grave Medio-Orientale (MERS) ed altri Coronavirus umani che causano raffreddori e sindromi simili influenzali lievi, ma tutti questi sono diversi da SARS-COV-2, che è quindi considerato un NUOVO virus umano. Proprio per questo l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) comunica che al momento nessun farmaco ha ancora dimostrato la sua efficacia nel trattamento del COVID-19. Inoltre, non è disponibile un vaccino che possa consentire di bloccare la sua diffusione. E neppure è possibile fare una previsione a questo riguardo: generalmente per sviluppare e mettere in commercio un nuovo vaccino sono previsti tempi lunghi (fino a 10-15 anni).

L’Agenzia è in contatto con gli sviluppatori di circa dodici potenziali vaccini contro COVID-19. Per due di questi sono già stati avviati gli studi clinici di fase I, che rappresentano i primi studi necessari e sono condotti su volontari sani. Secondo l’EMA potrebbe essere necessario almeno un anno prima che un vaccino contro il COVID-19 sia pronto per essere approvato e sia disponibile in quantità sufficienti per consentirne un utilizzo diffuso. Gli sforzi dell’EMA mirano ad interagire costantemente con gli sviluppatori di potenziali terapie o vaccini contro il COVID-19, per fornire assistenza sui requisiti regolatori affinché ogni medicinale potenzialmente efficace possa essere messo a disposizione dei pazienti il più rapidamente possibile, prima nel contesto della sperimentazione clinica e poi, una volta autorizzato, anche sul mercato.

Un esempio utile per capire le possibili tempistiche è fornito da Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) di Bethesda USA. A fine aprile inizierà presso l’Istituto da lui diretto uno studio di fase 1 su un vaccino risultato sicuro ed efficace nei modelli animali. Questa prima sperimentazione dovrebbe coinvolgere 25 persone adulte e sane e i dati iniziali sono previsti per luglio-agosto. Questo significa che il vaccino non sarà disponibile per l’epidemia attualmente in corso, se non eventualmente per le primissime fasi sperimentali. Lo sviluppo potrebbe essere comunque utile se dovessero verificarsi future epidemie, sia del virus SARS-CoV-2 che di Coronavirus simili che dovessero sfortunatamente colpire l’uomo.

Cosa fare in attesa della disponibilità di un vaccino?

In mancanza di un vaccino, per fermare l’epidemia sono importanti le misure di contenimento. L’epidemia di SARS, che nel 2003 ha causato 8.098 casi e 774 morti, è stata fermata nell’arco di pochi mesi grazie alle seguenti misure che, probabilmente, potrebbero limitare la diffusione anche di questo nuovo virus: identificare le persone che presentano i sintomi dell’infezione ed effettuare il test per verificare la presenza del virus, tenere in isolamento i casi positivi, rintracciare le persone che hanno avuto contatti stretti e prolungati con le persone ammalate e monitorare il loro stato di salute.

In una situazione così nuova e connotata da una così alta complessità ed incertezza, tuttavia, può essere difficile per la popolazione comprendere quali siano le cose giuste da fare, come ci si dovrebbe comportare in una situazione così straordinaria. Marco Annoni, ricercatore dell’Istituto di tecnologie biomediche (CNR-Itb) di Roma, introduce l’interessante concetto dell’etica della reciprocità proveniente dalla filosofia morale, alla base della quale si trova una semplice regola che tutti già conosciamo e cioè non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facciano a te.

Nel caso dell’epidemia da COVID-19, è importante scegliere di prendere il punto di vista delle persone più deboli, le persone più anziane, le persone che hanno altre patologie o quelle che non potranno essere operate perché i reparti di terapia intensiva sono già occupati dai pazienti di COVID-19. Il ricercatore sostiene che applicare la regola dell’etica della reciprocità significa assumere il loro punto di vista e chiedersi come vorremmo che gli altri cittadini, i decisori politici, gli scienziati si comportino nei nostri confronti. Applicare questa regola può essere utile a tutti per capire come dovremmo agire, come dovremmo fare la nostra parte rispetto a questa grave emergenza.

E può essere utile anche per riflettere su come la salute della comunità dipenda dalla responsabilità di ciascun cittadino.

Per i singoli cittadini è importante il rispetto delle misure igieniche efficaci nel prevenire le infezioni respiratorie:

  • lavarsi le mani spesso e accuratamente, con acqua e sapone, per almeno 20 secondi. Se ciò non è possibile, si può utilizzare una soluzione alcolica
  • riparare la bocca e il naso quando si tossisce o si starnutisce con un fazzoletto di carta, da gettare subito dopo l’uso (dopo lavarsi le mani) o, in mancanza di un fazzoletto, tossire nell’incavo del braccio
  • evitare di toccare occhi, naso e bocca che sono facili vie di infezione
  • non stare a stretto contatto con persone che presentano sintomi di infezione respiratoria
  • indossare la mascherina chirurgica negli spostamenti all’esterno autorizzati dalle autorità.

L’USO CORRETTO DELLE MASCHERINE

Le mascherine, il loro utilizzo corretto e gli eventuali errori che vengono commessi quando le si toglie, sono al centro dell’interesse dell’intera popolazione, coinvolta nell’adozione delle misure di protezione a causa dell’emergenza legata alla diffusione dell’epidemia da Coronavirus.

Matteo Guidotti, dell’Istituto di Scienze e Tecnologie Chimiche “Giulio Natta” del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-Scitec) di Milano, aiuta a fare chiarezza sull’argomento, sottolineando innanzitutto che esistono due tipologie di mascherine.

La mascherina chirurgica fornisce una protezione nei confronti della diffusione del Coronavirus sia bloccando le goccioline di secrezioni respiratorie emesse dalle persone malate che la indossano, sia impedendo che le medesime goccioline o spruzzi di secrezioni o altri fluidi biologici raggiungano le mucose di naso e bocca. In generale si assicurano al viso mediante lacci o elastici da passare dietro le orecchie o legare dietro la nuca; alcuni modelli sono dotati di un ferretto flessibile per una migliore aderenza alla sella nasale. Le mascherine chirurgiche non aderiscono strettamente ai contorni del viso e pertanto possono soltanto impedire che le goccioline di secrezioni respiratorie (droplet) più grosse vengano in contatto con la bocca o il naso di chi le indossa. Le mascherine approvate per uso come dispositivi medici sono state testate per assicurare specifici livelli di protezione nei confronti della penetrazione di sangue ed altri fluidi biologici attraverso le mucose di naso e bocca.

La mascherina FFP2 o FFP3, o filtrante facciale, protegge la persona che la indossa da aerosol finissimi che possono contenere particelle infettanti di dimensioni ridottissime come i virus, e, se perfettamente adattata al viso (fit test), può filtrare gli aerosol contenenti virus generati da persone infette, ma rispetto alle mascherine chirurgiche presenta l’inconveniente di non essere tollerata per lunghi periodi per la difficoltà di respirarvi attraverso. L’esperto del CNR specifica che sarebbe necessario abbinare alla mascherina FFP2 anche appositi occhiali protettivi di tipo professionale, affinché la loro efficacia sia effettiva. Infatti, tra le porte di ingresso del virus, oltre alle vie aeree, ci sono anche le mucose degli occhi.

Una volta usate, le mascherine monouso debbono essere immediatamente smaltite nella spazzatura.

Come toglierle e dove posarle

Matteo Guidotti sposta il focus del discorso sul momento in cui i dispositivi vengono dismessi, togliendoli dal volto. Infatti, è soprattutto quando andiamo a togliere la mascherina che tipicamente commettiamo degli errori. Il consiglio migliore è quello secondo cui la mascherina vada maneggiata soltanto toccandola dalla parte degli elastici e mai dalla parte anteriore, sul cui filtro potrebbe essere presente il virus adsorbito nel corso della respirazione. Bisogna poi pensare che quando la togliamo in casa, questo deve essere un oggetto contaminato. È quindi assolutamente sconsigliabile lasciarla su un tavolo della cucina, sul mobile in bagno o comunque su parti sempre sensibili. Molto meglio (per chi ne ha la possibilità) avere “una zona filtro” all’ingresso della casa, eventualmente un’antiporta, un corridoio, un angolo dietro la porta di ingresso o, nel caso più fortunato una parte all’esterno della casa per chi avesse il giardino in cui togliere questo tipo di dispositivo con la cautela prescritta e gettarlo direttamente in un sacco dedicato. Questo accorgimento serve ad evitare di portare il patogeno eventualmente presente sulla mascherina nel proprio ambiente protetto di casa.